“Noi non siamo né Joni, né dori, ma Siculi”, è quanto afferma Ermocrate nel 424 a.C. sancendo così la costituzione della nazione siciliana. L’identità nazionale del popolo siciliano è stata favorita dalla necessità della difesa e soprattutto dalla naturale insularità che ha portato a trovare un veicolo ideale nella lingua.
La lingua viene considerata a ragione l’elemento di unità di una nazione perché capace di resistere alle influenze di tante altre culture con le quali viene a contatto; capace addirittura di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta ritiene più utile al suo arricchimento. E allora siamo d’accordo con Marco Scalabrino parlando di una lingua greco-sicula, latino-sicula, franco-sicula, italo-sicula. Ma sempre e sostanzialmente una e una sola lingua : il Siciliano.
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Pertanto la lingua è l’anima di un popolo ed è quella che dà libertà ad un popolo.
Cantava Ignazio Buttitta: ”un populu, diventa poviru e servu quanno ci arrobanu a lingua adduttata di patri: -è persu pi sempri”.
Della lingua siciliana si hanno notizie fin dal 1230, quando una colta élite di burocrati e funzionari della corte di Federico II , monarca del regno Svevo proclamato imperatore nel 1220, si diede a coltivare l’arte della poesia volgare.
Lo splendore del volgare siciliano fu tale che lo stesso Dante Alighieri nel “ De vulgari eloquentia” affermava che tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano e definì tutta la produzione poetica siciliana col nome di “ Scuola Siciliana” .
Tra i più famosi poeti di lingua siciliana troviamo Cielo D’Alcamo , giullare particolarmente colto che scrisse il celebre componimento” Rosa fresca aulentissima” e Giacomo da Lentini, da molti ritenuto l’inventore del sonetto. Dante gli attribuì il titolo di caposcuola della lirica siciliana dato che nei suoi componimenti erano presenti tutti gli stili letterari siciliani fino ad allora usati: sonetto, canzone e canzonetta.
Il Contrasto di Cielo D Alcamo
Qualche tempo dopo, l’influenza della lingua siciliana si affermò anche nel nord-Italia, soprattutto in Toscana dove si venne a formare una corrente di poeti, i poeti siculi-toscani, che in seguito avrebbero dato origine alla Scuola del Dolce Stil Novo e alla lingua italiana che si affermò come lingua del popolo italiano al contrario del siciliano che fu relegato al ruolo di semplice dialetto regionale. Purtuttavia questo dialetto mantenne sempre nei secoli una sua dignità e uniformità, tanto che il glottologo tedesco Gerald Rohlfs scrisse che nell’isola esiste un dialetto unitario. Le differenze che si possono notare nel lessico derivano quasi esclusivamente dalla presenza, più o meno, di avanzi del greco e dell’arabo.
Se esistono talune volte, tra un territorio e l’altro, delle piccole variazioni sono da attribuirsi, come afferma Salvatore Riolo e lo stesso Guido Barbina, più al suono che al vocabolo stesso: ” me soru” a Palermo e Agrigento, “ ma sueru” a Canicattì; “ ovu” e “ uevu” , “ picciottu” e “ picciuettu” , “ cacocciula” e” cacuecciula” .
Ma torniamo a quanto si diceva delle fondamenta del nostro dialetto o come vogliono molti studiosi, della nostra lingua.
Giovanni Ragusa scrive che i Siculi erano un popolo indoeuropeo: infatti essi vennero dall’India verso l’Europa e quelli che, in seguito, giunsero nella nostra isola, guidati da Siculo, furono chiamati Siculi. La loro lingua doveva essere conseguentemente, se non la sanscrita, una che certamente ne derivava. Basta vedere alcuni vocaboli: il nostro” putra (puledro) nel sanscrito è “pùtra” che vuol dire figlio; il nostro “matri” , non deriva dal latino “mater” ma dal sanscrito “ màtr” .
I siculi sottomessi in seguito dai greci, furono costretti per necessità a far proprio il lessico dei dominatori, ma lo espressero con la fonetica che era ad essi congenita, naturale. Ciò avviene anche da noi che, dovendo parlare l’italiano, lo esprimiamo foneticamente e sintatticamente come ci è naturale, e ciò fa sì che veniamo riconosciuti “siciliani” in ogni luogo e da tutti e di questo non dovremmo vergognarci perché ci rivela come gente di antica e nobile civiltà. Il lesssico latino presenta poi in tutta l’isola una uniformità che raramente si trova nelle altre regioni d’Italia. Questo non significa che la lingua siciliana di oggi, si formò tutta nello stesso tempo, anche se buona parte (quella più antica è andata per sempre perduta).
Palermo,Venditore ambulante di acqua,1900.Archivio Alinari
Le lingue sono sempre in movimento; e come in qualunque cosa il processo di evoluzione è sempre presente. La lingua siciliana è una lingua stratificata; Apuleio, uno scrittore siciliano del II sec. d. C. definisce i siciliani trilingue, (perché parlavano tre lingue), il Greco, il Punico ed il Latino. Più tardi con l’occupazione araba, un’altra lingua si aggiunse alle altre, e non è la fine della stratificazione, poiché con l’arrivo dei Normanni abbiamo anche il francesce che si mescola alla nostra lingua gà tanto complicata. Con la fine della dinastia normanna, il Regno di Sicilia passò agli Svevi e Federico II, (chiamato “splendor mundi”, per il suo grande ingegno di uomo politico, scienziato e letterato), non solo aggiunse parole tedesche al nostro vocabolario (non molte comunque), ma per lottare contro la religione islamica che era a suo tempo diffusa nell’isola, da cristiano che era, cominciò un programma di rivitalizzazione della lingua latina per tutta la Sicilia e la bassa Italia. Per questa ragione la lingua siciliana perse la rimanenza delle forme del latino antico e acquistò quella del latino ecclesiastico che era un latino più giovane, rendendo la lingua siciliana più elegante e piacevole come suono. A quel tempo il greco era ancora usato nell’isola, tanto che quando Federico II pubblicò “Le Costituzioni Malfitane” ha dovuto pubblicarle anche in greco, poiché il latino quasi non esisteva più. dopo tanti secoli di assenza. Il processo di rilatinizzazione cominciato da Federico II, durò fino al secolo XIV, poiché un’altra dinastia, quella Aragonese, era venuta in Sicilia. Con la conseguente dominazione spagnola, un altro strato di vocaboli si aggiunse alla lingua siciliana, vocaboli che ancora oggi persistono. L’unità d’Italia e l’affermazione del toscano quale lingua dei sudditi del Regno, avrebbero voluto-dovuto decretare la scomparsa dei dialetti, di tutti i dialetti della penisola; siciliano compreso dunque, malgrado il suo plurisecolare passato di storia e di poeti, quali Antonio Veneziano, Giovanni Meli, Domenico Tempio per citarne solo alcuni, che l’avevano celebrato.
E invero, esso sembrò smarrirsi. parve quasi soccombere, salvo ritrovarsi, a fine ottocento, col Verismo prima e con autori del calibro di Nino Martoglio successivamente. Col Novecento poi, quanto più la funzione della comunicazione andò ripiegando in favore dell’italiano, tanto più se ne andò estendendo l’impiego letterario, in particolare nella poesia. Cosicchè se da un canto il dialetto siciliano è, ancora oggi, più vitale che mai, d’altro canto esso è relegato al ruolo pressocchè esclusivo di lingua letteraria, lingua dei poeti; di lingua, ovverossia, volta al perpetuarsi di un patrimonio di cultura, che altrimenti rischia seriamente di estinguersi. Tale fenomeno ha generato, nel secolo appena trascorso, degli autori di assoluto pregio, tra i quali Ignazio Buttitta è di certo il più universalmente noto e anche Giovanni Formisano, l’autore di “E vui durmiti ancora” , è assai conosciuto. Altri, parimenti degni e tuttavia meno fortunati, pazientemente aspettano che qualche spirito illuminato, un giorno o l’altro, li “scopra” . Sì, è vero, tanta gente ha dominato la Sicilia, ma non lo spirito siciliano, che è rimasto libero da ogni dominazione e imposizione. I siciliani hanno preso le lingue che gli stranieri portarono e imposero, le trasformarono e le resero siciliane sempre, come oggi ci appaiono. Questo comportamento, come tanti altri, ha fatto sì che in qualche modo siano stati i siciliani a dominare i conquistatori tenendo salda la propria identità di apparteneza. Nei metri della poesia popolare tramandata oralmente, i poeti del popolo esprimevano quel vario mondo sentimentale, le ideologie, quella vasta cultura popolare con i suoi temi sociali, religiosi, morali, politici, largamente condivisi fra le masse popolari. Di questo sentire popolare, di questa “concezione del mondo e della vita” per dirla con Gramsci, il poeta popolare era portavoce e rielaboratore, organico come era a quel mondo: si trattava di contadini o artigiani, o anche di piccoli borghesi, in grado di poetare alla maniera della tradizione, dotati di grande memoria. Sì, perché la memoria, ha nella poesia popolare il compito spettante alla scrittura nella letteraria; cioè conserva, diffonde e accomuna non solo le idee, ma anche le forme e quindi gioca un ruolo creativo, proprio per il principio che la ricomposizione di frammenti sparsi è di per se stessa una ricerca, un atto ricreativo, insomma un’invenzione. Il Pitrè a più riprese si occupò di questi poeti popolari noti o sconosciuti: ” analfabeti, che dotati di viva fantasia, di splendida immaginazione e di pronta inventiva hanno cantato finora in Sicilia ciò che più li ha colpiti: “l’amore, la religione, i fatti tristi e lieti, pubblici e privati del giorno”. Il mito romantico della poesia, però, come creazione colletiva, spontanea e non riflessa, la “naturpoesie”, per dirla coi tedeschi, ha condizionato gli studi a lungo: è un mito da sfatare. La trasmissione della poesia popolare può essere collettiva, ma la creazione è sempre personale e individuale. Dietro ad ogni componimento c’è sempre un essere pensante col suo cuore, il suo cervello, i suoi sentimenti, il suo mondo. Pertanto nella poesia popolare, i siciliani hanno documentato la loro vita di tutti i giorni, la vita quotidiana del popolo; essa è diventata un documento storico e filosofico, morale e religioso.
La morti nun si cancia pì munita,
omu,rispunni a ‘ sturtima chiamata,
lassa li beni e termina la vita
e tutta la pirsuna inviulata
che pallida dda facci sapurita
chera di certi aduri sciacquata.
Ora rispunni Diu bontà infinita,
rennimi cuntu a la vita passata.
(Atonino Oliveri detto”Giuranedda”.Poeta dialettale partinicese,1790-1863)